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mercoledì 24 agosto 2011

E io pago 2... il ritorno


Non lo nego, sono rimasto a bocca aperta quando ho letto della querelle tra società e calciatori su chi deve pagare – sempre che il provvedimento non venga cancellato in questi giorni durante una revisione della Legge Finanziaria dove nulla è come sembra e tutto può cambiare nel breve scorrere di un attimo – il famoso contributo di solidarietà. Tanto cominciamo a dire pane al pane e vino al vino e chiamiamo questa supertassa una tantum con il suo nome. Sarà anche un contributo di solidarietà, ma visto che è obbligatorio per chi guadagna sopra i 90mila euro all'anno, di “contributo” e di “solidarietà” ha poco: chiamiamola “imposta su chi guadagna un po' di più” che facciamo prima e evitiamo di tirare in mezzo la solidarietà che, almeno a parole, dovrebbe essere volontaria e legata ad un moto proprio di sentimenti. Cosa c'è di solidale in una tassa che è obbligatoria da pagare altrimenti si finisce nei guai. Questo non vuol dire che mi schieri pro o contro la tassa in sé. Se lo Stato è nei guai è comprensibile che parte di questi guai globali finiscano sulle spalle di chi lavora. Ma il nome mi sembra per lo meno bizzarro.

Ma torniamo ai calciatori. Ad aprire la caccia al giocatore è stato quel simpatico ministrone di Calderoli: “Sono dei bambini viziati – ha tuonato con il suo consueto bon ton - vogliono far pagare le società e si rifiutano di aprire i cordoni della borsa. Meriterebbero di pagare il doppio”. Apriti cielo. Ecco che sui giornali e sulle tv, che come al solito vanno al traino e non verificano le notizie, è scoppiato il caso dell'estate. Da una parte i pro calciatori, decisi a difendere la categoria del campioni dell'italica pedata e a puntare il dito sulle società cattive che si rifiutano di pagare allo Stato quanto richiesto. Dall'altra parte della barricata calcistica, i finti perbenisti pronti a puntare il dito contro i miliardari in braghette e maglietta che, insensibili al grido di dolore del Paese in crisi, non vogliono aprire i cordoni della loro ricca borsa da privilegiati. Tutto un turbinio di voci, anatemi, analisi finto-sociali. Viziati, infami, arricchiti. Chi più ne ha più ne metta. E giù speciali televisivi, editoriali ed elzeviri, articoli con firme roboanti, titoli in prima pagina, indignados e ultras da stadio. Da un lato i partigiani delle squadre che spiegano che, se le società fossero costrette a pagare il contributo di solidarietà per tutti i giocatori che hanno in rosa rischierebbero il fallimento (calcolatrice alla mano, il Milan dovrebbe sborsare più di 10milioni di euro, l'Inter pure), dall'altro chi fa notare che, nel novero dei calciatori, non ci sono solo i supercampioni da 10 milioni all'anno, ma anche i “poveri lavoratori del pallone” delle serie inferiori, che non guadagnano certo cifre stratosferiche (e su questo si potrebbe comunque eccepire che, se portano a casa meno di 90mila euro al mese, la tassa non la pagano di default). Insomma, un bailamme totale. Del tutto senza un perché per una semplice ragione: nessun calciatore, in realtà, ha dichiarato pubblicamente di non voler pagare. Anzi. L'unica dichiarazione pubblica è quella dell'Associazione Calciatori che, fin dal primo minuto, in risposta a Calderoli, ha fatto sapere che: “I calciatori sono lavoratori subordinati e devono rispettare le stesse regole. Se nel contratto c'è scritto che i compensi sono calcolati al netto, il contributo va pagato dalla società. Se invece sono calcolati al lordo, spetta al giocatore". Beh, detta così sembrerebbe facile, ovvia, scontata. Quello che non è scontato è invece il fatto che, anche i calciatori, devono rendersi conto che il mondo sta cambiando. E che certi privilegi si pagano: in un momento di difficoltà totale, dove il 20 per cento degli italiani fatica a mettere insieme il pranzo con la cena e dove un altro 30 per cento ha difficoltà ad affrontare eventuali spese impreviste, sarebbe bello (e soprattutto giusto, diciamolo) che – contratto o non contratto – i nostri campioni si dimostrassero tali anche nella solidarietà. Questa volta sì, quella vera. E si mettessero in fila davanti all'ufficio delle imposte con il portafogli in mano a pagare il loro contributo volontariamente. Senza tante storie o discussioni. Magari pure con il sorriso sulle labbra. Per dare una mano e una boccata d'ossigeno a chi, andando ad applaudirli tutte le domeniche allo stadio, fa sì che possano avere una vita da re. 


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